L’idea di Amusía germoglia prima della pandemia, dopo tutte le vicissitudini del covid e del lockdown, come stai vivendo con l’effetto di essere in sala col tuo film?
Mi sento estremamente fortunato e felice perché sono, in primis, uno spettatore e un frequentatore assiduo di cinema. Quando sono a Roma vado al cinema tre o quattro volte a settimana. Per me la sala è una seconda casa, un posto dove mi sento sereno, tranquillo e rassicurato. La sala cinema, per me, è essenziale e poi sono grato alla 102 Distribution perché so quanto è difficile oggi, in questo momento storico, arrivare in sala con un percorso che valorizzi il film, cosa che la 102 è riuscita a fare. Sono grato a loro e mi sento molto fortunato.
Da cosa nasce l’idea di parlare dell’amusía, questa malattia molto rara?
Diciamo che questa malattia molto rara l’ho scoperta leggendo un libro di Oliver Sacks, uno scrittore e psichiatra brillante che ha scritto molti libri. Uno di questi si chiama Musicofilia e all’interno c’è un capitolo dedicato alla musica che ho trovato super interessante, visto che sono un grande appassionato di musica. Ho scoperto che ci sono alcune persone che nascono con un deficit e non scelgono di avere questa malattia che non ha alcun privilegio di scelta. La musica per loro è come un rumore fastidioso e non hanno modo di apprezzarla. Nel mio film però credo che la musica possa essere anche un pretesto per raccontare il disagio che, secondo me, tutti gli esseri umani provano, specialmente in giovinezza. Quel disagio di non sapere ancora bene dove collocarsi, di non riuscire a trovare una provenienza, di sentirsi incompatibili.
La UMI Films, la tua casa di produzione, nasce proprio per dare vita a questo progetto. Un’operazione molto coraggiosa. Ma che cos’è UMI Films, chi siete, e soprattutto quali sono le vostre prospettive?
Siamo tre amici: io, Bardo Tarantelli e Lorenzo Fiuzzi. Nel 2020 arrivo da loro con questo copione finito, insomma, quella che poi era una stesura finita. Ero andato lì con l’idea di fare questo film insieme a loro, e abbiamo partecipato a un bando per opere prime e seconde, ottenendo un punteggio molto alto, che ci ha permesso a quel punto di ingranare il meccanismo dei finanziamenti. Quindi da quello del MIBACT è arrivato quello della Regione, le Film Commission, poi Rai Cinema. Sapevamo che ci serviva un budget sotto il milione, diciamo vicino, ma sotto al milione, per eseguire quella che era la mia idea, la mia visione di questo film, che più o meno è quella che si vede poi sullo schermo. E quando ci siamo accorti che attraverso i finanziamenti avevamo coperto quel budget abbiamo detto “perché non provare a produrcelo noi?“. Avevamo aperto la UMI Films proprio per partecipare al bando e a quel punto la casa di produzione ce l’avevamo, il budget anche, quindi abbiamo cercare di capire veramente come funziona il procedimento di fare un film. Tutto questo è stato un percorso a ostacoli, ma la quantità di cose che abbiamo imparato ce le porteremo dietro a vita. Le lezioni che abbiamo preso, anche con le cattive, ci hanno portato a fare una co-produzione, appena conclusa, con The Apartment per un loro film. Quindi, la UMI Films non si è fermata con Amusía, e oltre che lavorare sicuramente sul mio soggetto, che è già in cantiere, stiamo lavorando anche con altre produzioni, perché il nostro obbiettivo principale non era quello che UMI Films fosse una stella cometa, che passasse e sparisse, volevamo costruire anche una vera e propria casa di produzione. Il mio obiettivo è quello di crescere come regista, ma anche come casa di produzione, soprattutto attraverso Bardo e Lorenzo, che sono produttori. Io sono il lato artistico.
Quali sono i riferimenti del tuo cinema e di questo film?
Ci sono dei riferimenti che si perdono nell’inconscio e che potrebbero non venire in mente al momento, ma Paris Texas di Wim Wenders è uno di questi, soprattutto per quanto riguarda il Motel e un certo tipo di illuminazione , ma anche per la desolazione del Mid West che ho cercato di riproporre attraverso il territorio del Modenese e del Ferrarese. Anche L’ultima notte di quiete di Zurlini, in cui Alain Delon indossa lo stesso tipo di cappotto che Carlotta Gamba porta nel nostro film può essere un riferimento. Per quanto riguarda il mio cinema invece, amo Jim Jarmush e Paweł Pawlikowski, ma recentemente sto guardando molti film degli anni ’50, perché il nostro prossimo progetto fa riferimento a quel periodo, quindi Nicholas Ray, Billy Wilder, Orson Welles e Antonioni. Penso ci sia un po’ di influenza di Antonioni in Amusía, in particolare per il suo modo di filmare e di far parlare gli edifici con una sola inquadratura.
A film finito, rapportando intenzioni e risultato, senti di aver detto tutto quello che volevi?
Ho visto molte volte il film, due volte in sala, a Tallinn e a Bari. Ogni volta che lo guardo, mi chiedo se ci siano cose che avrei potuto fare meglio o diversamente. E’ giusto interrogarsi su queste cose, anche se so che è inutile farlo perché ormai il dado è tratto. Tuttavia, penso che avremmo potuto fare scelte narrative diverse o inquadrature differenti che si sarebbero potute adottare. Inoltre, sono una persona che non è mai soddisfatta, e tutto ciò che penso possa essere migliorato lo uso come spunto per il prossimo progetto.
Come sono stati scelti i giovani protagonisti del film, Giampiero de Concilio e Carlotta Gamba?
Giampiero De Concilio lo conoscevo perché avevo visto Un giorno all’improvviso di Ciro D’Emilio. Poi con il direttore del casting Maurilio Mangano, quando è riapparso il suo viso, anche se non assomigliava a livello estetico al personaggio che mi prefiguravano nella mia testa, abbiamo deciso di vederlo. Quindi Giampiero arriva attraverso un casting in presenza dopo il self tape. Quel giorno si presenta questo ragazzo napoletano nel nostro appartamento di Roma, diventato per l’occasione l’ufficio di produzione, e si presenta rispettoso, umile e timido. Quando chiediamo di provare la scena lui esce dalla stanza, poi rientra, e ti posso assicurare che ha fatto tremare i muri. Per caso, subito dopo era programmato il provino in presenza di Carlotta, che per me fu un colpo di fulmine dopo aver visto il suo self tape, perché assomigliava esattamente al personaggio che io avevo in mente in fase di scrittura. Quei suoi occhi freddi, quel dentino spezzato, quei capelli biondi, severa e fredda. Insomma, aveva tante caratteristiche che mi ricordavano Livia, e quando è arrivata lì dopo Giampiero li abbiamo fatti provare insieme. Carlotta è un’attrice estremamente intelligente, ha captato subito la temperatura di Giampiero e ha fatto esattamente il contrario. Quindi avevamo già da quel provino quello che poi si ripropone nel film, la chimica che funzionava perfettamente.
Come siete riusciti a convincere un’attrice come Fanny Ardant a far parte del cast?
Abbiamo avuto un enorme vantaggio grazie alla UMI Films, poiché, autoproducendoci, non avevamo sopra di noi un produttore stereotipato che ci dicesse “ragazzi, lasciate perdere, non è possibile. Fanny non accetterà mai, Luca Bigazzi non accetterà mai, le scenografie costano troppo”. In altre parole, non avevamo nessuno che censurasse le idee e avevamo la libertà di credere in noi stessi e nei nostri sogni, di raggiungere certi obiettivi e certe persone. Questa è stata una grande opportunità, perché non avevamo un tetto sopra la nostra testa. Per rispondere alla domanda su Fanny, essendo io proveniente da un altro mondo cinematografico e non da quello romano, ho chiesto aiuto al mio socio, Bardo Tarantelli, che lavora sui set e conosce il mondo del cinema italiano. Lui mi ha consigliato di prendere come assistente alla regia Baladine Ardant, la figlia di Fanny Ardant, con cui aveva lavorato sul set di The Young Pope di Paolo Sorrentino, e mi aveva detto che era bravissima. Noi a quel punto avevamo già chiuso con Luca Bigazzi e sapevamo che i due avevano lavorato bene assieme. Secondo noi è stata un’ottima scelta. Le abbiamo mandato il copione e ci ha risposto che per lei era meraviglioso. Nel frattempo, stavo ancora cercando un’attrice per il ruolo di Domitil, la madre di Livia nel film, ma non riuscivo a trovarla e mi stavo preoccupando. Avrei voluto scegliere Elena Lietti, ma non era disponibile perché stava già lavorando in Le otto montagne. Tuttavia, sapevo che la madre di Baladine era Fanny Ardant, ma pensavo anche che fosse poco rispettoso nei confronti di Baladine chiedere di far leggere il copione a sua madre, quindi non l’ho fatto. Un giorno, però, è stata Baladine a propormelo. Era un grande onore per me sapere che Fanny Ardant avrebbe letto qualcosa che avevo scritto e dopo due settimane, quando ormai avevo perso ogni speranza e pensavo che tutto fosse andato come doveva andare, ovvero che Fanny Ardant non fosse interessata, ecco che ricevo un’email da un indirizzo francese. Era molto presto, circa le cinque o le sei del mattino, e la persona che mi scriveva, Fanny Ardant, si rivolgeva a me con il ‘Lei’. Scriveva di aver letto la mia sceneggiatura e che l’aveva trovata molto poetica e raffinata e che se avessi ancora avuto interesse, era disponibile a parlare con me del personaggio. Quel giorno non ho più dormito.
Questo aneddoto mi fa venire in mente la partecipazione di un’altra grande attrice francese, Juliette Binoche, nel film d’esordio di Piero Messina, “L’Attesa”. È interessante notare come professionisti di questo calibro partecipino a film di registi emergenti. Quale è stata la tua esperienza sul set con Fanny Ardant?
L’umiltà e la generosità dimostrate da un’attrice come Fanny Ardant e come si sia messa a servizio del film sono state davvero emozionanti. Lei è un’attrice che dà il massimo in ogni circostanza, non importa se si tratta di un’opera prima o di un film di Bertolucci o Marescotti Ruspoli. Secondo me, il suo metodo e il suo approccio al lavoro dovrebbero essere mostrati a tutti coloro che vogliono fare recitazione. Lei, come anche Maurizio Lombardi, sono così intelligenti che sono loro i primi a farti sentire a tuo agio. Ti danno quella confidenza che ti fa sentire molto più tranquillo e, per certi versi, facilitano il compito di regia perché sono loro a venirti incontro. Ad esempio, ieri abbiamo presentato il film al Cinema Troisi e sono andato in macchina con Fanny. Se fossi stato da solo, sarei arrivato in sala tutto sudato, invece Fanny mi ha parlato per tutto il viaggio e non mi ha fatto pensare a nient’altro. Sono arrivato al Troisi senza neanche accorgermene e questo è ciò che significa lavorare con lei. È in grado di darti quella tranquillità che solo i grandi attori sanno farti sentire.
Un’altra figura professionale importante sul tuo set è quella di Luca Bigazzi, così come quella della scenografa Monica Sallustio. Come ti sei rapportato con loro?
Studiavo Luca Bigazzi da anni, fin dal periodo in cui frequentavo l’Accademia di Cinema di Praga e conoscevo tutta la sua filmografia, ho letto il suo libro La luce necessaria, ed è sempre stato uno dei miei sogni lavorare con lui. Un giorno, lo incontro a Milano e glielo confesso, così mi lascia il suo indirizzo email e mi dice: “Quando hai scritto qualcosa, mandamelo”. Un anno e mezzo dopo lo faccio e così inizia la collaborazione. Per alimentare la fiamma del mio sogno, oltre a scrivere, facevo anche lo scouting delle ambientazioni del film. Sono partito dal cimitero di San Cataldo dell’architetto Aldo Rossi, che sapevo essere il mio punto di partenza, alla ricerca di architetture nella zona del Ferrarese. La scintilla che è scattata tra me e Luca è anche dovuta al fatto che lui ha visto in me un regista con ben chiara una visione. Posso dire che Luca sul set è stato il mio migliore amico, ha esaltato il mio modo di vedere le cose e, in un certo senso, è stato il mio primo alleato. Quando ho incontrato Monica, le ho raccontato del motel all’americana, della scala a chiocciola e di tutte le idee molto chiare che avevo in testa e che con l’aiuto di Monica sono state ulteriormente migliorate. Mi sono circondato di persone molto più talentuose di me, che hanno recepito la mia visione e l’hanno perfezionata. Il risultato finale è stato frutto di un grande lavoro di squadra e posso dire che Monica ha saputo rendere ancora migliore quella che già sapevo essere l’ambientazione ideale per il mio film.
Uscirete su piattaforma?
Penso di sì, anche se so che deve trascorrere del tempo tra l’uscita in sala e quella in piattaforma, però ci stiamo lavorando. A me piacerebbe Mubi, perché credo sia quella maggiormente appropriata per il nostro genere di film.
Intervista di Matteo Di Maria